
Il nostro presepe era enorme, con tanto
di volta stellata tirata su da mio fratello (già all'epoca un genio
del “fai da te”) con filo di ferro e carta cielo, da cui
fuoriuscivano lampade ad incandescenza a simulare le stelle (e per
fortuna non c'è mai stato un cortocircuito!) che si accendevano e si
spegnevano con il ritmo pulsante e preciso dell'intermittenza.
Il nostro albero era un po' più
piccolo, ma pieno di luci e di quelle palle di vetro antiche e
trasparenti al cui interno c'erano paesaggi innevati o angeli
adoranti: e in cima una enorme stella luminosa che da sola consumava
un kilowatt.
Io ero piccolo, ma volevo a tutti costi
partecipare alla costruzione di questi due simboli che, nei miei
occhi di bimbo, mi introducevano ad una stagione magica e benedetta.
La raccolta del muschio (allora non era un problema raccoglierlo, ce
ne erano prati ovunque), la scelta della posizione dei figuranti nel
presepe, l'altezza di ciascuna palla sull'albero... Tutto contribuiva
a farmi entrare, piano piano, nella consapevolezza che stavo
festeggiando qualcosa di supremamente importante: l'arrivo di un
bambino... ma che era anche Dio! Che cosa strana! Che cosa inusuale!
Che cosa stupenda!
Era un lento crescendo che mi
introduceva a poco a poco in quello stato della mente e dell'anima
che poi, da adulto, avrei conosciuto col nome di “adorazione”.
Adorare, nella forma latina da cui
deriva la parola italiana, è scritto “ad orare”, che
significa “parlare (orare) a qualcuno (ad)”; per me
bambino il Natale era entrare in contatto con un Dio, distante ed a
cui non sarei mai potuto arrivare, tramite un bambino come me che
veniva a nascere in terra, e con il quale mi ci potevo confrontare,
con cui potevo parlare... che potevo “ad-orare”.

E così, con stupore, ho capito che lui
era ancora lì, il bambino rappresentato dalla statua minuta che
ponevo la notte del 24 dicembre, come vuole tradizione, sotto una
grotta di sassi. E non era più un bambino, ma un uomo con il quale
mi ci potevo confrontare, che aveva provato al pari mio, il dolore di
perdere persone amate, la disperazione di essere stato tradito, la
voglia di cose non sane, la paura per quello che sarebbe accaduto
domani...
Ora che sono vecchio, e che
continuo a camminare a fianco di quell'uomo, so che parte del mio
essere ancora capace di stupirmi per ciò che il Natale significa lo
devo a quei miei primi natali, agli occhi bambini che celavano un
cuore desideroso di capire il mondo che c'era sotto quella volta
stellata fatta di carta cielo. Che non comprendevano a pieno la
valenza di un Dio che scende in terra umiliandosi a prendere le mie
medesime forme, ma che comunque “ad-oravo”, a cui parlavo,
a cui affidavo i miei primi sogni come pure le prime paure nella
notte.
Per questo, per quanto ho
potuto, ho lottato nella mia famiglia per mantenere quella medesima
tradizione sin da quando i miei figli erano piccoli, lottando contro
il consumismo che tutto massifica, contro i led al posto delle lucine
intermittenti, contro il senso di vuoto che dice che nella
mangiatoia, sotto due ali di roccia, altro non c'è che una statua di
gesso, augurandomi che anche il loro cuore bambino affidasse la loro
vita sotto la volta stellata ad un Dio che scende ad incontrarli.
L'ho fatto, nella speranza
che la mio pari, essi lo faranno con i loro figli, fino alla fine
dell'età presente. Perché anche loro possano “ad-orare”
il Cristo che nasce come semplice uomo per potermi salvare.
“Quel che abbiamo udito
e conosciuto,
e che i nostri padri ci
hanno raccontato,
non lo nasconderemo ai
loro figli;
diremo alla generazione
futura le lodi del Signore,
la sua potenza e le
meraviglie che egli ha operate.
Egli stabilì una
testimonianza in Giacobbe,
istituì una legge in
Israele
e ordinò ai nostri padri
di farle conoscere ai loro figli,
perché fossero note alla
generazione futura,
ai figli che sarebbero
nati.
Questi le avrebbero così
raccontate ai loro figli,
perché ponessero in Dio
la loro speranza
e non dimenticassero le
opere di Dio,
ma osservassero i suoi
comandamenti.”
(Salmo 78:3-6)
Buon Natale.
Marco