lunedì 11 agosto 2014

Effetti collaterali | 11 Agosto 2014 |

Io non c'ero ancora, ma mio padre me lo ha raccontato, chissà quante volte, nelle sere quando, spenta la TV, ci radunavamo intorno al focolare per sentirlo ripetere le storie di una giovinezza trascorsa tra la fame e i bombardamenti.

Era il 10 Giugno 1944, o giù di lì, a Viterbo. Sulla porta di via Teatro Nuovo al numero 1, proprio di fronte al Teatro dell'Unione, comparve un segno, fatto con un pennello intinto nella vernice rossa. Non so che forma avesse il segno: se una croce, un cerchio, una svastica, ma poco importa; l'odio non ha una forma unica, e la vernice, il pennello o l'abilità della mano che traccia il segno sono assolutamente ininfluenti di fronte al cuore che li comanda. Un cuore pieno di violenza, di odio, di rancore.

In quella casa, al primo piano, abitava mio padre, diciotto anni, l'unica sua colpa quella di avere un genitore che, pur di far sopravvivere una famiglia di quattro figli e una moglie nel disastro della guerra, aveva “collaborato” con il regime. Piccolo burocrate impaurito dal regime, impiegato in un ufficio, dove era la regola mettere la divisa.

Quel segno significava una cosa sola: “Qui ci sono: sapete cosa dovete fare loro”.

Cosa fare loro” non aveva una specificità, ma era legato “all'estro” della persona col fucile che sarebbe entrata per prima in quella casa. E contemplava un po' tutto: dalla deportazione di mio nonno, sino alla strage dell'intera sua famiglia. Bisognava fare “pulizia” dal vecchio per creare una nuova nazione, senza memoria e nostalgia del passato.

E nessuno era realmente interessato a fermare la mano che aveva fatto il segno, o che avrebbe tirato il grilletto; c'era altro da fare, la priorità era in altri luoghi. Quelli non erano che piccoli “effetti collaterali” della situazione.

L'unica soluzione, per evitare quel “cosa fare loro” era la fuga. Durante la notte, mio nonno prese l'intera famiglia, raccattò quello che era possibile trasportare nella fuga, lasciando dietro tutto il resto, e nell'oscurità, assieme a chissà quanti altri, attraversando strade piene di macerie, di corpi, di pattuglie e di spari, portò i suoi cari in salvo, lontano da quel segno. Io oggi sono qui a scrivere queste cose a motivo di quella fuga disperata.

Altro scenario, altra parte del mondo, altri tempi. Mosul, l'antica Ninive, la città salvata da Dio
tramite la testimonianza di un profeta riluttante ad obbedire al Signore di nome Giona: segni diversi, armi più moderne, stessa violenza, stesso odio, stesso rancore.
Una "ن ", enne in arabo, iniziale di “Nazareni” (il modo dispregiativo di chiamare i cristiani, in quanto devoti non al Figlio di Dio, il Cristo, “l'Unto dal Signore”, ma semplicemente a un profeta straccione vissuto duemila anni fa a Nazaret di Galilea) è il segno: “Qui ci sono; sapete cosa fare”.

La fuga, la stessa fuga di mio nonno, ma stavolta non quella di un popolo straccione per via della guerra mondiale, ma la fuga biblica di un'intera etnia che viene costretta ad abbandonare la propria storia, viene inseguita nella fuga, uccisa, seppellita viva, stuprata e fatta schiava, o costretta a “convertirsi” a forza, ben sapendo che, anche se ti converti, quella stigmata sulla tua pelle, quella “N” rimarrà, e per sempre, facendoti vivere una vita di serie Z. Ma bisogna fare “pulizia” per creare uno stato islamico che conquisti il mondo, senza l'intralcio di una religione che proclami di dover amare i propri nemici e di rispettarli senza diventarne parte.

E, anche qui, nessuno realmente interessato a fermare le mani che fanno i segni o che maneggiano le armi. Così come già visto in Nigeria, in Ciad, in Sudan, in Somalia, e persino alle porte della nostra evolutissima Europa, in Bosnia.

Ci sono in ballo altri equilibri, altre priorità; le decisioni, quelle che contano, vengono prese in altri luoghi, lontani dal clamore delle battaglie o dalla polvere degli esodi di massa. Gli “effetti collaterali” rientrano nella norma.

Sino a quando le porte di coloro che sono visti come un ostacolo al proprio progetto verranno “segnate”? Sino a quanto il “cosa fare loro” sarà ascritto sotto il capitolo “effetti collaterali” e non sotto quello “crimini”? Per quel che concerne i credenti, la Bibbia ce lo dice chiaramente: “Anzi, l’ora viene che chiunque vi ucciderà, crederà di rendere un culto a Dio.” (Giovanni 16:2b)

Cosa posso fare, come credente, oltre mettere la “N” sul mio profilo Facebook, Twitter o Instagram? Personalmente non penso che le manifestazioni di piazza potranno portare alcun beneficio; la pressione dei media, per quanto forte, è comunque governata dalle logiche internazionali che, in questo caso, “impongono cautela” (vallo a dire alle centomila persone in fuga nel nord dell'Iraq e della Siria!).

L'arma più potente, la vera sola arma di chi crede, è la preghiera costante affinché i governo si accorgano che non si tratta di “effetti collaterali” ma di una “pulizia etnica”, di un attacco dritto al cuore del cristianesimo; non c'è mai stata tanta condivisione mediatica sulle atrocità perpetrate contro i Cristiani in precedenza. La sfida è lanciata, e chiara: “Guardate cosa facciamo a voi, e voi non potete fare nulla!”.

Mai come in questo momento è necessaria una unità dei credenti, di qualsiasi denominazione essi siano, affinché il Signore cambi il cuore di coloro che siedono in alto e governano le guerre dalle loro confortevoli poltrone. Abbiamo un Dio che è al controllo, e che risponde alla fede delle nostre preghiere.


“Lo sguardo altero dell’uomo sarà umiliato e l’orgoglio di ognuno sarà abbassato; il Signore solo sarà esaltato in quel giorno. Infatti il Signore degli eserciti ha un giorno contro tutto ciò che è orgoglioso e altero, e contro chiunque s’innalza, per abbassarlo... L’alterigia dell’uomo sarà umiliata, e l’orgoglio di ognuno sarà abbassato; il Signore solo sarà esaltato in quel giorno. “ (Isaia 2:11, 17)

Marco


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