
Era il 10 Giugno 1944, o giù di lì, a
Viterbo. Sulla porta di via Teatro Nuovo al numero 1, proprio di
fronte al Teatro dell'Unione, comparve un segno, fatto con un
pennello intinto nella vernice rossa. Non so che forma avesse il
segno: se una croce, un cerchio, una svastica, ma poco importa;
l'odio non ha una forma unica, e la vernice, il pennello o l'abilità
della mano che traccia il segno sono assolutamente ininfluenti di
fronte al cuore che li comanda. Un cuore pieno di violenza, di odio,
di rancore.
In quella casa, al primo piano, abitava mio padre, diciotto anni, l'unica sua colpa quella di avere un genitore che, pur di far sopravvivere una famiglia di quattro figli e una moglie nel disastro della guerra, aveva “collaborato” con il regime. Piccolo burocrate impaurito dal regime, impiegato in un ufficio, dove era la regola mettere la divisa.
In quella casa, al primo piano, abitava mio padre, diciotto anni, l'unica sua colpa quella di avere un genitore che, pur di far sopravvivere una famiglia di quattro figli e una moglie nel disastro della guerra, aveva “collaborato” con il regime. Piccolo burocrate impaurito dal regime, impiegato in un ufficio, dove era la regola mettere la divisa.
Quel segno significava una cosa sola:
“Qui ci sono: sapete cosa dovete fare loro”.
“Cosa fare loro” non aveva
una specificità, ma era legato “all'estro” della persona
col fucile che sarebbe entrata per prima in quella casa. E
contemplava un po' tutto: dalla deportazione di mio nonno, sino alla
strage dell'intera sua famiglia. Bisognava fare “pulizia” dal
vecchio per creare una nuova nazione, senza memoria e nostalgia del
passato.
E nessuno era realmente interessato a
fermare la mano che aveva fatto il segno, o che avrebbe tirato il
grilletto; c'era altro da fare, la priorità era in altri luoghi.
Quelli non erano che piccoli “effetti collaterali” della
situazione.
L'unica soluzione, per evitare quel
“cosa fare loro” era la fuga. Durante la notte, mio nonno
prese l'intera famiglia, raccattò quello che era possibile
trasportare nella fuga, lasciando dietro tutto il resto, e
nell'oscurità, assieme a chissà quanti altri, attraversando strade
piene di macerie, di corpi, di pattuglie e di spari, portò i suoi
cari in salvo, lontano da quel segno. Io oggi sono qui a scrivere
queste cose a motivo di quella fuga disperata.
Altro scenario, altra parte del mondo,
altri tempi. Mosul, l'antica Ninive, la città salvata da Dio
tramite
la testimonianza di un profeta riluttante ad obbedire al Signore di
nome Giona: segni diversi, armi più moderne, stessa violenza, stesso
odio, stesso rancore.
Una "ن
", enne in arabo, iniziale di
“Nazareni” (il modo dispregiativo di chiamare i cristiani, in
quanto devoti non al Figlio di Dio, il Cristo, “l'Unto dal
Signore”, ma semplicemente a un profeta straccione vissuto duemila
anni fa a Nazaret di Galilea) è il segno: “Qui
ci sono; sapete cosa fare”.
La fuga, la stessa fuga di
mio nonno, ma stavolta non quella di un popolo straccione per via
della guerra mondiale, ma la fuga biblica di un'intera etnia che
viene costretta ad abbandonare la propria storia, viene inseguita
nella fuga, uccisa, seppellita viva, stuprata e fatta schiava, o
costretta a “convertirsi” a forza, ben sapendo che, anche se ti
converti, quella stigmata sulla tua pelle, quella “N” rimarrà, e
per sempre, facendoti vivere una vita di serie Z. Ma bisogna fare
“pulizia” per creare uno stato islamico che conquisti il mondo,
senza l'intralcio di una religione che proclami di dover amare i
propri nemici e di rispettarli senza diventarne parte.
E, anche qui, nessuno
realmente interessato a fermare le mani che fanno i segni o che
maneggiano le armi. Così come già visto in Nigeria, in Ciad, in
Sudan, in Somalia, e persino alle porte della nostra evolutissima
Europa, in Bosnia.
Ci sono in ballo altri
equilibri, altre priorità; le decisioni, quelle che contano, vengono
prese in altri luoghi, lontani dal clamore delle battaglie o dalla
polvere degli esodi di massa. Gli “effetti collaterali” rientrano
nella norma.
Sino a quando le porte di
coloro che sono visti come un ostacolo al proprio progetto verranno
“segnate”? Sino a quanto il “cosa fare
loro” sarà ascritto sotto il capitolo
“effetti collaterali” e non sotto quello “crimini”? Per quel
che concerne i credenti, la Bibbia ce lo dice chiaramente: “Anzi,
l’ora viene che chiunque vi ucciderà, crederà di rendere un culto
a Dio.” (Giovanni 16:2b)
Cosa posso fare, come
credente, oltre mettere la “N” sul mio profilo Facebook, Twitter
o Instagram? Personalmente non penso che le manifestazioni di piazza
potranno portare alcun beneficio; la pressione dei media, per quanto
forte, è comunque governata dalle logiche internazionali che, in
questo caso, “impongono cautela” (vallo a dire alle centomila
persone in fuga nel nord dell'Iraq e della Siria!).
L'arma più potente, la
vera sola arma di chi crede, è la preghiera costante affinché i
governo si accorgano che non si tratta di “effetti collaterali”
ma di una “pulizia etnica”, di un attacco dritto al cuore del
cristianesimo; non c'è mai stata tanta condivisione mediatica sulle
atrocità perpetrate contro i Cristiani in precedenza. La sfida è
lanciata, e chiara: “Guardate cosa facciamo
a voi, e voi non potete fare nulla!”.
Mai come in questo momento
è necessaria una unità dei credenti, di qualsiasi denominazione
essi siano, affinché il Signore cambi il cuore di coloro che siedono
in alto e governano le guerre dalle loro confortevoli poltrone.
Abbiamo un Dio che è al controllo, e che risponde alla fede delle
nostre preghiere.
“Lo sguardo altero dell’uomo sarà umiliato e l’orgoglio di
ognuno sarà abbassato; il Signore solo sarà esaltato in quel
giorno. Infatti il Signore degli eserciti ha un giorno contro tutto
ciò che è orgoglioso e altero, e contro chiunque s’innalza, per
abbassarlo... L’alterigia dell’uomo sarà umiliata, e l’orgoglio
di ognuno sarà abbassato; il Signore solo sarà esaltato in quel
giorno. “ (Isaia 2:11, 17)
Marco
Marco